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L’11° Signore degli Ottomila

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La “Dea dell’Abbondanza” con Abele Blanc è stata un diavolo avaro. E capriccioso. Prima di offrirsi ha chiesto sacrifici di fatica, prove di fedeltà e sangue. Quello di Christian Kuntner, compagno di spedizione ucciso da una valanga nel 2005, e quello di Luca, il figlio venticinquenne che scelse il suicidio proprio mentre il padre tentava, nel 2006, di chiudere il rosario degli Ottomila con l’Annapurna. Quando arrivò la notizia – il 24 settembre – Abele era già al cospetto della sua montagna. “La notte a venire e i tre giorni seguenti impiegati per scendere dalla montagna – scrisse in una dolorosissima lettera inviata alla Stampa – saranno per me il viaggio più profondo che abbia mai compiuto all’interno della mia coscienza“. Anche questo ha voluto l’Annapurna prima di far entrare Abele Blanc nella storia dell’alpinismo, undicesimo uomo a respirare l’aria sottile su tutti i 14 Ottomila del mondo senza l’aiuto delle bombole di ossigeno; terzo italiano dopo il mito Reinhold Messner e il compagno di tante salite Silvio “Gnaro” Mondinelli; primo alpinista valdostano a riuscire nell’impresa.

Un viaggio lungo 10 anni, da quando nel 2001 conquistò la tredicesima vetta, e concluso sul filo, a 57 anni, quando il corpo dell’uomo sta per arrendersi all’eternità bianca dell’Himalaya. Cinque volte aveva tentato Abele, e cinque era stato respinto. La prima si era addirittura arreso alla sola vista delle pareti che – come ha ricordato Enrico Marcoz sul Corriere della Sera (no link) – chiedono più vite di tutti gli altri: il tasso di mortalità è del 40 per cento (contro il 10 dell’Everest e il 25 del K2). L’ultima, lo scorso anno, sembrava che il sogno fosse destinato a svanire una volta per sempre tra sbuffi di nuvole e vento: sull’Everest – prima tappa di una doppia spedizione – aveva trovato la consapevolezza di avere la forza necessaria per riuscire nella salita, l’Annapurna gli aveva mostrato i suoi 8091 metri ma poi il tempo aveva spento le speranze. “Arriva il monsone, inutile tentare“. E quindi il ritorno a casa, con il gigante di roccia e neve alle spalle e un vuoto, altrettanto imponente, dentro. Ma come ha scritto Erri De Luca “un congedo opportuno lascia dietro una porta sempre aperta”. Quella porta, adesso, è stata attraversata e la corte di Blanc alla Dea si è conclusa prima di diventare ossessione. “Questa – aveva detto prima di partire – è l’ultima volta, vada come vada io lì non ci voglio più tornare“. Era un nodo da sciogliere, una maledizione da sfatare, una risposta da chiedere ancora una volta. Una questione personale. Anche così si può leggere la spedizione top secret di Blanc, partito da solo assieme a uno sherpa con la complicità degli amici – come Marco Camandona – che hanno custodito il segreto al riparo dalla curiosità dei media e spinto l’uomo a compiere l’ultimo e più difficile passo. Ma c’è, in questa essenzialità, anche un ritorno all’alpinismo primitivo e più puro, che si monda dall’ingordigia chiassosa degli sponsor per tornare a essere confronto con la Natura, introspezione e voglia di trascendente. Il modo migliore per concludere il pellegrinaggio in cima ai Giganti della Terra.

Aggiornamento 15/5: E’ scoppiato un piccolo casino. Per avere la collezione completa dei 14 Ottomila senza ossigeno, Blanc ne deve rifare uno. E’ tutto spiegato qui.

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Chissà come erano gli altri

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Con questo logo il grafico Arnaldo Tranti, di St-Christophe, ha vinto il concorso lanciato per rappresentare le Dolomiti Patrimonio dell’Unesco. Ora, io di grafica capisco una cippa, quindi mi limito ad alzare un sopracciglio – non mi convince, ma così, di pancia – e a fargli i complimenti (qui un po’ di documenti scaricabili). A qualche pezzo grosso, però, non è piaciuto per un cazzo. E mica due quaquaraquà, ma Reinhold Messner e Oliviero Toscani. Il fotografo ha commentato con un sobrio: “E’ una vera schifezza“.

Ma Tranti se la ride. Ecco quello che ha detto a Cristian Pellissier, che lo ha sentito per La Stampa:

Se se ne parla tanto vuol dire che l’effetto è ottenuto. Il logo si presta a una doppia lettura, ma sono le Dolomiti stesse a presentarsi così, da sempre vengono paragonata a opere architettoniche. Lo stesso Messner ha ricordato come in un film del 1933 di Luis Trenker, grande regista di montagna, ci sia una dissolvenza con l’immagine che passa dalle Dolomiti ai grattacieli di Manhattan. (…) Per me è un gigantesco onore avere avuto queste critiche da Toscani, personalmente lo ritengo un troglodita: appartiene al secolo scorso. Noi del settore non lo consideriamo proprio, ha fatto opere interessanti negli Anni 70, poi ha lavorato molto con Benetton, ma per il resto è solo un ottimo provocatore. Quando è venuto al Forte di Bard sono andato a sentirlo, e non ha fatto altro che dire una serie di gigantesche banalità.

Written by andrea chatrian

14 novembre 2010 at 17:55